L’errore che più frequentemente si commette è quello di attribuire al pianto del lattante lo stesso significato di quello del bambino più grandicello, cioè di considerarlo sempre e solo espressione di dolore o di forte emozione. In realtà si tratta di una maniera, imperiosa quanto si vuole ma senz’altro efficace, di attirare l’attenzione per poter comunicare e dialogare.
Normalmente la durata complessiva giornaliera del pianto è di 1 ora e ¾ nelle prime 2 settimane di vita, di 2 ore e ¼ dalla seconda alla quarta settimana di vita, di 2 ore – 2 ore e ¾ durante il secondo mese e di 1 – 2 ore dal secondo al terzo mese di vita. Si tratta quindi di un fenomeno frequente e più che mai naturale.
E’ importante che i genitori imparino a tradurre il messaggio che il proprio bambino vuole comunicare con il pianto: ciò potrebbe risultare difficile nei primi giorni di vita mentre risulterà senz’altro più naturale ed immediato con il passare dei giorni, man mano che si completa la conoscenza reciproca. Come regola generale è bene, per quanto possibile, soddisfare l’esigenza espressa con il pianto in modo da far acquisire al neonato fiducia in se stesso, provandogli che comunicando riesce ad ottenere ciò che vuole: in termini scientifici si dice che riesce a condizionare l’ambiente. D’altro canto non è giusto anticipare le sue richieste per non farlo piangere perché di priva il neonato della capacità di comunicare con il mondo esterno. Se piange durante la poppata agitandosi oppure staccandosi e riattaccandosi al seno o al biberon può essere per il troppo rumore, troppo caldo o perché è infastidito dal pannolino sporco. Oltre che valutare queste situazioni, si provi ad interrompere momentaneamente la poppata e a consolarlo con il succhiotto.