I piccoli non sanno riconoscere esattamente cosa provano, cosa gli sta accadendo, e dunque hanno molta difficoltà nell'esternare il proprio stato d'animo: questo vale anche per la tristezza.
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Negli ultimi anni si parla spesso del fenomeno della tristezza, o peggio ancora della depressione, che arriva a colpire anche i bambini e gli adolescenti. Alcuni studi, riportati dal Ministero della Salute, hanno evidenziato che il fenomeno della tristezza nei bambini può riguardare circa il 2% dei più piccoli, e addirittura salire ad una percentuale compresa tra il 4% e l’8% per quanto concerne i ragazzi più grandicelli.
Quando un adulto è triste, di solito ne è consapevole e riesce a manifestarlo apertamente parlandone con altre persone: amici, parenti, se necessario anche medici o psicologi. Se non altro, questo può favorire una possibile ricerca di strategie che possano portare alla risoluzione del problema, del malessere.
Quando si tratta di bambini, invece, è tutto molto più complesso: i piccoli non sanno riconoscere esattamente che cosa provano, che cosa gli sta accadendo, e dunque hanno anche molta più difficoltà nell’esternare il proprio stato d’animo.
É un po’ come se si trattasse di un malessere nascosto molto più diffuso di quanto si pensi, qualcosa di cui si conosce soltanto la punta dell’iceberg. Molti esperti ritengono che, per queste ragioni, soltanto un quinto dei bambini con una problematica di questo tipo ottenga l’aiuto ed il supporto (psicologico e/o farmacologico) di cui necessiterebbe.
Quali sono, in linea di massima, i campanelli d’allarme che dovrebbero mettere in guardia i genitori? Come già detto, non è semplice per i bambini esprimere il proprio stato d’animo, in particolare la tristezza, ma ci sono senz’altro alcuni comportamenti che possono rivelare la presenza di qualche problematica in tal senso.
Quando si manifestano i comportamenti sopra descritti, in particolar modo l’aggressività e l’eccessiva agitazione, molti genitori sono d’impulso portati a giudicare male tali atteggiamenti, classificandoli come “cattivi comportamenti” che, in qualche modo, rischiano di etichettare in modo errato il bambino
Innanzitutto, conviene avere sempre un atteggiamento di ascolto nei confronti dei figli, per aiutarli a raccontare, ad aprirsi. Poi, è bene far mente locale sugli avvenimenti che in qualche modo riguardano la vita del bambino, per individuare quelli che potrebbero averlo particolarmente turbato (cose ovvie come lutti o separazioni, ma a volte anche episodi meno evidenti che però potrebbero avere la loro rilevanza agli occhi di un bambino).
Infine, è molto importante riuscire a far comprendere ai piccoli che ciò che loro provano in definitiva ha un nome, può essere spiegato a parole, e quindi in un certo senso può essere anche affrontato e sconfitto. E, soprattutto, che non c’è nulla di cui vergognarsi e che potranno sempre contare sull’aiuto dei genitori.
Un valido supporto può inoltre arrivare dalla psicoterapia, che può dare ottimi risultati anche a lungo termine. É comunque sempre imprescindibile un buon rapporto di collaborazione tra famiglia e scuola.